6 ottobre 2012

LA GRANDE STORIA: CONCILIO VATICANO II°

50 anni di storia della primavera della Chiesa.
Nel 1962 il Beato Giovanni XXIII apriva una stagione nuova della Chiesa con l'indizione del Concilio Vaticano II°.
La Rai ci ha offerto la sera del 4 ottobre un contributo straodinario e ben fatto per la serie di "La storia siamo noi".
Ve lo propongo... un bel regalo che ci si può fare con un pò di calma...
Copia e incolla:
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-85821fac-0ae1-46b9-b274-c369b30e208d.html

4 aprile 2012

Settimana Santa


“Quanto è splendido il digiuno
Che si adorna dell’amore
Spezza generoso il tuo pane con chi ha fame
Altrimenti il tuo non è digiuno, ma risparmio”


Con questo canto dal Vespro del martedì di Quaresima, la liturgia maronita, imbevuta della teologia dei padri siriaci, collega strettamente il digiuno con la carità. In un tempo in cui il digiuno per tanti è di fatto una forma di dieta, la Chiesa che insegna tramite la liturgia ricorda che il digiuno cristiano è molto più dell’astinenza dai cibi.

L’apostolo Paolo non ha dubbi sul fatto che la carità sia la corona delle virtù cristiane, e un digiuno non abbellito dallo splendore della carità è vano. E l’apostolo Giovanni chiarisce che la pietra di paragone della vera carità è la praticità e la concretezza, perciò esorta: «Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità» (1 Gv 3,18).

La povertà ha diversi volti, e madre Teresa, che era tanto familiare con la povertà e la fame materiale, ha affermato un giorno che nel mondo occidentale – dove la gente sembra più ricca – vi è una fame più grande e una povertà più grave di quella che si riscontra nelle viuzze di Calcutta: è la povertà spirituale, la mancanza di senso e l’indigenza di chi ha rinunciato al suo Signore, fonte, senso e fine della nostra esistenza.

16 marzo 2012

CIO' CHE DIO VUOLE ! 18.03.2012 / 4° di Quaresima


Dal secondo libro delle Cronache
In quei giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme.
Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora.
Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio.
Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi.
Il re [dei Caldèi] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni»…


Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo:
«Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».


Primavere
Quanto è difficile convertirsi! E credere nel Dio di Gesù!
Quanto è difficile scegliere da che parte stare, nella vita, sempre strattonati tra le troppe cose da fare, inquieti e rassegnati, travolti dalle mille preoccupazioni.
Ci è necessario il deserto, anche se minuscolo, anche se duramente conquistato ritagliando qualche minuto alle nostre giornate. Eppure abbiamo bisogno di tornare all'essenziale, proprio ora che le difficoltà crescono e la tentazione della sfiducia, anche nella Chiesa, diventa incombente.
Tenendo fisso lo sguardo sulla bellezza di Dio, intuita, assaporata, cercata, possiamo ribaltare i banchetti delle nostre approssimative e inconcludenti visioni di Dio per liberare il tempio del nostro cuore (e il tempio che è la Chiesa) da una visione mercanteggiata della fede.
È un percorso lungo, faticoso.
Ne sa qualcosa il libro delle Cronache, ne sa qualcosa Nicodemo.

Dio giudice
Ci è connaturale un'orribile visione di Dio. La portiamo nel cuore, nell'inconscio, nel vano tentativo di dare una parvenza di giustizia all'illogica dinamica di questo mondo.
Il cammino dell'uomo biblico è irto di difficoltà, di continue conversioni, di ragionamenti che avanzano nelle nebbie. Se Dio è buono, si chiede la Bibbia, da dove deriva il dolore?
In particolare, nel brano di oggi, l'autore ancora cerca una risposta alla brutale distruzione del tempio e alla successiva prigionia in Babilonia. Ed ecco la drammatica risposta: l'esilio è stata una punizione per non avere rispettato il ciclo sabbatico della natura: un anno ogni sette, per lasciare la terra al suo riposo. Dio, giudice giusto, ha ascoltato la lamentela del Creato: i settant'anni di esilio forzato del popolo ha ridato fiato alla natura.
È una visione semplicistica, eppure efficace: Dio punisce il peccato del popolo.
Ma già nell'Antico Testamento si è approfondito il tema capendo che non è Dio a punire, ma il peccato stesso.
Il peccato è male perché ci fa del male, il peccato distrugge, non Dio!
Eppure quanto connaturale ci è una visione così stringente.
Ci viene spontaneo pensare che se Dio è una carogna, tutto torna.
Ma, se invece, è come lo racconta Gesù, le cose si complicano?

Nicodemo
Gesù parla ad un combattuto Nicodemo che lo raggiunge durante la notte, per non farsi vedere. Ha una reputazione da difendere (che diamine!), ma è curioso. Lui è un credente, un membro del Sinedrio, sa bene di Dio e delle sue leggi. Nicodemo però non è convinto, cerca un volto di Dio diverso.
Gesù gli rivela qualcosa di inatteso e inaudito, ciò che nessuno mai aveva osato immaginare.
Gesù gli racconta il pensiero di Dio.

Ciò che Dio vuole
Dio non vuole una classe disciplinata di bravi ragazzi che obbediscono sorridendo. Dio vuole persone autentiche che sappiano mettersi in gioco, che accettino di crescere (non sempre questo significa migliorare!), che imparino a distinguere le proprie ombre, da adulti.
Gesù è chiarissimo: Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Dio vuole la salvezza, cioè la pienezza di vita per ogni uomo. E, per farlo, per manifestare la serietà del proprio amore, Gesù già parla del dono di sé totale, del mistero della croce. La croce che, come dice san Massimo il confessore, è il giudizio del giudizio.
Davanti alla possibilità di essere dei capolavori o delle fotocopie sbiadite, l'uomo è libero di scegliere. E sono le nostre scelte a giudicarci, possiamo vivere in un prolungato inverno, ostinandoci a dire che non esiste nessuna bella stagione e che, al massimo, noi sappiamo vestirci meglio degli altri.
Quando tutto è grigio è difficile vedere l'ombra dietro di sé.
Ma vivere una vita grigia è una non scelta di vita.
Dio vuole la nostra salvezza, ad ogni costo.
Nessun giudice, nessun preside, nessun vigile.
Solo un padre tenerissimo.

Ma
Il ragionamento implode.
Meglio un Dio che opera la giustizia, altro che.
Se Dio è buono perché il dolore innocente? Certo, la sofferenza, spesso, è frutto delle nostre scelte sbagliate o delle nostre fragilità. Ma come può Dio sopportare il dolore del bambino che muore di cancro? Come può sopportare la morte tragica di 22 bambini tra le lamiere di un pulman entro il buio di una galleria?
Non può.
Gesù, ad un attonito Nicodemo, indica un simbolo, quel serpente di bronzo innalzato da Mosè per guarire gli ebrei morsi dai serpenti. Anche lui, Gesù, sarà innalzato e salverà chi volgerà il proprio sguardo verso di lui.
Gesù già intravvede all'orizzonte la sconfitta del suo ministero, e vuole andare fino in fondo.
Dio è disposto a morire per salvare gli uomini, per salvare me.
Dio porta su di sé il dolore dell'innocente, lo assume, lo redime, lo salva.
Volgiamo lo sguardo alla croce, in questo deserto, alla misura senza misura dell'amore di Dio.
Ecco, questo è il Dio in cui crediamo.
(Paolo Curtaz)

3 marzo 2012

CANZONE di Lucio Dalla. Ciao Lucio e ... grazie. Ora goditi il cielo!

Non so aspettarti più di tanto
Ogni minuto mi dà
L'stinto di cucire il tempo
E di portarti di qua
Ho un materasso di parole
Scritte apposta per te
E ti direi spegni la luce
Che il cielo c'è
Star lontano da lei non si vive
Stare senza di lei mi uccide

Testa dura testa di rapa
Vorrei amarti anche qua
Nel cesso di una discoteca
O sopra il tavolo di un bar
O stare nudi in mezzo a un campo
A sentirsi addosso il vento
Io non chiedo più di tanto
Anche se muoio son contento

Star lontano da lei non si vive
Stare senza di lei mi uccide

Canzone cercala se puoi
dille che non mi perda mai
va' per le strade e tra la gente
diglielo veramente

Io i miei occhi dai tuoi occhi
Non li staccherei mai
E adesso anzi me li mangio
Tanto tu non lo sai
Occhi di mare senza scogli
Il mare sbatte su di me
Che ho sempre fatto solo sbagli
Ma uno sbaglio che cos'è

Stare lontano da lei non si vive
Stare senza di lei mi uccide

Canzone cercala se puoi
dille che non mi lasci mai
va' per le strade e tra la gente
diglielo dolcemente

E come lacrime la pioggia
Mi ricorda la tua faccia
Io la vedo in ogni goccia
Che mi cade sulla giacca

Stare lontano da lei non si vive
Stare senza di lei mi uccide

Canzone trovala se puoi
dille che l'amo e se lo vuoi
va' per le strade e tra la gente
diglielo veramente
non può restare indifferente
e se rimane indifferente
non è lei        

FINESTRE DI CIELO APERTE SUL REGNO - 4 marzo II di Quaresima / B

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l'amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro [...] (Marco 9, 2-1)   

Gesù porta i tre discepoli sopra un monte alto.
La montagna è la terra dove si posa il primo raggio di sole e indugia l'ultimo, la terra che si innalza nella luce, la più vicina al cielo, quella che Dio sceglie per parlare e rivelarsi.
Infatti, lassù appaiono Mosè ed Elia, gli unici che hanno veduto Dio.
E si trasfigurò davanti a loro.
Il Vangelo non evidenzia nessun particolare della trasfigurazione, se non quello delle vesti diventate splendenti. Ma se è così luminosa la materia degli abiti che coprono, quale non sarà lo splendore del corpo?
E se così è il corpo, cosa sarà del cuore?
È come quando il cuore è in festa e la festa si comunica al volto … e di festa sono anche i vestiti.
Pietro ne è sedotto, prende la parola: che bello essere qui! Facciamo tre capanne.
L'entusiasmo di Pietro, la sua esclamazione stupita - che bello! - ci fanno capire che la fede per essere pane, per essere vigorosa, deve discendere da uno stupore, da un innamoramento, da un «che bello!» gridato a pieno cuore.
Ciò che seduce Pietro non è l'onnipotenza di Dio, non lo splendore del miracolo, il fascino dell'infinito, ma la bellezza del volto di Gesù.
Quel volto è il luogo dove è detto il cuore, il suo cuore di luce; dove l'uomo si sente finalmente a casa: stare qui, è bello!
Altrove siamo sempre lontani, in viaggio. Il nostro cuore è a casa solo accanto al Suo.
Il Vangelo della Trasfigurazione mette energia, dona ali alla nostra speranza: il male e il buio non vinceranno, non è questo il destino dell'uomo.
Alimenta un pregiudizio sulla bontà dell'uomo, un pre-giudizio positivo: Adamo (l’uomo) ha, o meglio, è una luce custodita in un guscio di creta. La sua vocazione è liberare la luce.
Avere fede è scoprire, insieme con Pietro, la bellezza del vivere, ridare gusto a ogni cosa che faccio, al mio svegliarmi al mattino, ai miei abbracci, al mio lavoro. Tutta la vita prende senso e si illumina.
Ma questo Vangelo ci porta una notizia ancora più bella: la trasfigurazione non è un evento che riguarda Gesù solo, al quale noi assistiamo da spettatori. È un evento che ci riguarda tutti, al quale possiamo e dobbiamo partecipare.
Il volto di Gesù sul monte è il volto ultimo dell'uomo, è il presente del futuro.
È come sbirciare per un attimo dentro il Regno, vederlo come una forza possente che preme sulla nostra vita, per trasformarci, per aprire finestre di cielo.
Il Vangelo di domenica scorsa chiedeva: convertiti. La conversione è come il movimento del girasole, questo girarsi verso la luce.
Il Vangelo di questa domenica offre il risultato: mi giro e trovo il sole, sono irradiato, mi illumino, mi imbevo e godo della luce, il simbolo primo di Dio.
                                                                                                              (Ermes Ronchi su Avvenire di giovedì 1 marzo 2012)

15 febbraio 2012

E tu lo chiami Dio - Eugenio Finardi

Vorrei volare ma non posso,
E resto fermo qua
Su questo piano che si chiama terra
Ma la terra si ferma…
Appena mi rendo conto
Di avere perso la metà del tempo
E quello che mi resta è di trovare un senso

Ma tu, sembri ridere di me,
Sembri ridere di me…

E tu lo chiami Dio
Io non do mai nomi
A cose più grandi di me
Perché io non sono come te…
Ma conosco l’amore
Io, io che ho visto come te
Dritto in faccia il dolore…

Vorrei volare ma non posso
e spingermi più in là
Adesso che si fa silenzio attorno
Ma il silenzio mi parla…

Devo combattere con le mie lacrime,
mica con una poesia
E non c’è ordine nei letti d’ospedale
Come in una fotografia rivedo
dritta sulle spalle la mia figura….

E tu lo chiami Dio
Io non do mai nomi
A cose più grandi di me
Perché io non sono come te…
E tu lo chiami Dio
Io non do mai nomi
A cose più grandi di me
Perché io non sono come te…
Ma conosco l’amore
Io, che ho visto come te
Dritto in faccia il dolore…

E tu lo chiami Dio
Io non do mai nomi
A cose più grandi di me
Perché io, io sono come te…

13 febbraio 2012

Lo scarabocchio è l'altro nome della tenerezza - 12/02/2012 VI dom B

Nella sua spelonca, come un antico mago, Satana si divertì a scomporre il corpo dell'uomo nei suoi tessuti e nelle sue fibra, ne spiò ogni nervo, ne scrutò le ossa e le midolla; volle che un lembo del suo inferno si trapiantasse quaggiù nella nostra terra di vivi. Gli riuscì di trasformare la notte in un forno maledetto dove avvoltolarsi fino all'alba contando ore lunghe come secoli, volle che l'uomo si vedesse coperto giorno dopo giorno di bubboni e piaghe, che sentisse le proprie ossa trapassate di lance, frantumate da seghe, addentate da invisibili cani. Volle che l'uomo vedesse colare dalla propria pelle secrezioni immonde e ne percepisse il fetore. Il capolavoro è compiuto, "signore e signori ecco a voi il lebbroso": terra di confine tra il giardino della morte e la fatica del vivere umano, il cadavere ambulante, lo scomunicato per eccellenza. Perché quella pelle puzzolente e fetida tutti la riconosceranno, sin dai primi righi dell'Antico Patto dell'Alleanza: "por terà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: Immondo! Immondo!" (Lv 13,45).
Il Vangelo pullula di lebbrosi: tra i bianchi borghi della Palestina e il silenzio superbo di chi non capisce la Sue parole, tra le parabole del Nazareno e le martellate della Crocifissione, campeggia il loro grido agghiacciante e premonitore: "allontanatevi, siamo infetti!". Nessuno si avvicina loro, la pietà cristiana muore nel raggio di qualche metro dalle loro piaghe. Resta solo Lui, il Vasaio nelle cui mani il fango può ritrovare forma, riacquistare bellezza e definizione, luce e calore. Lui non scappa, non fugge dalle sue responsabilità, s'addentra nel grido di dolore per cercarne l'origine e il battito. E se Lui resta - mentre tutti fuggono - il lebbroso stavolta s'avvicina lui (Mc 1, 40-45). Non l'accompagna nessuno: è un animale che puzza. L'unico caso nel vangelo di Marco in cui un ammalato s'avvicina da solo: con umiltà, con fiducia estrema, con cautela. Non c'è l'astuzia di chi vuol rubare a Gesù l'ennesimo miracolo, l'eloquenza ricca di lamenti del dolore, la mimica dell'implorazione in un volto che ormai è soltanto una spugna. Allontanato dalla società e divelto nel fisico, gli rimangono due possibilità: il miracolo, il salto nella vita, la riabilitazione sociale o restare così com'è, con tutto il male del mondo ficcato dentro di lui sino all'ultimo giorno della sua vita. "Se tu vuoi, puoi guarirmi". Lui lo punta dritto negli occhi: sente il cuore che batte, la lebbra pronta a sgretolarsi, il cuore umile che riconosce in Lui l'autore della vita: "lo voglio, guarisci!". Tra queste due frasi non si muove foglia, bestie e uomini tacciono. Solo la mano di Cristo s'allunga, compie il breve viaggio entro quella spanna d'aria, scioglie in un abbraccio la paura e la pietà.

A primavera due semi si trovavano uno a fianco dell'altro. Il primo disse: "Voglio crescere e spingere le mie radici in profondità, fare spuntare i germogli sopra la crosta della terra, dispiegare le gemme come bandiere per annunciare la primavera, sentire il calore del sole sul volto, la benedizione della rugiada sui petali". E crebbe. Il secondo replicò: "Ho paura. Se spingo le radici nel terreno, non so cosa incontrerò nel buio. Se mi apro la strada attraverso il terreno duro posso danneggiare i miei germogli. Se apro le gemme, una lumaca se le mangia. Se metto i fiori, un bambino potrebbe strapparmi da terra. E' meglio aspettare finché ci sarà sicurezza". E aspettò. Una gallina che raschiava il terreno in cerca di cibo trovò il seme che aspettava. E subito se lo mangiò.

In ogni storia c'è il sintomo della lebbra: Satana è sempre al lavoro nella sua spelonca per disumanizzare la bellezza della Creazione. E' il macigno della solitudine, della miseria, del menefreghismo, dell'anonimato, della disperazione, del peccato, della mormorazione falsa, della malizia spaventosa. Macigni enormi messi all'imboccatura dell'anima, che non lasciano filtrare l'ossigeno, che bloccano ogni lama di luce, che impediscono alle parole di essere feconde. Adesso devono tacere tutti, uomini e bestie, pure il lebbroso deve rientrare in città muto nelle parole e nei gesti. Cristo impone il silenzio: dalla mansueta tenerezza della guarigione passa con veemenza al fastidio, si scalda, ammonisce, intima di tacere perché la gente sta fraintendendo tutto, ieri come oggi. L'uomo ai Suoi occhi è sempre un diamante da sgrezzare.
E anche Dio ha il suo dilemma da sciogliere: come provare compassione e intervenire senz'apparire quel fantoccio assurdo che troppa gente porta oggi nel cuore? Mica un problema da poco, sopratutto per uno che si chiama Dio.

don Marco Pozza